lunedì 2 aprile 2007

Silenzio

L'assenza potrebbe prolungarsi più del previsto. Abbiate fede, comunque. Generalmente dopo tre giorni ritorno.

martedì 20 marzo 2007

Gay Family Day

Una idea stravagante: la massiccia partecipazione di coppie omosessuali al Family Day. Che spettacolo sarebbe vederli sfilare insieme a Mastella e compagnia. Dopotutto, se anche una coppia è gay è una famiglia, quella è anche la loro manifestazione.

Democrazia, questa sconosciuta

Il sito in arabo del Patriarcato caldeo in Iraq, Ankawa.com, ha scritto che i miliziani islamisti in Iraq stanno imponendo sulle comunità cristiane l’antica tassa per i non musulmani, la jiza. “I sudditi non musulmani devono pagare il tributo al jihad se vogliono avere il permesso di continuare a vivere e professare la loro fede in Iraq”. Oggi a Baghdad molte sigle sunnite inneggiano allo “stato islamico dell’Iraq” e porzioni sempre più ridotte di territorio iracheno sono in mano ai ribelli islamici dove regna il terrore e la sharia. La campagna jihadista contro la comunità cristiana è stata incessante dal 2003. Così i preti caldei di Mosul, per motivi di sicurezza, girano in abiti civili, senza alcun riconoscimento talare. Uno dei gruppi più attivi nella zona è il “Primo esercito di Maometto”, una formazione mista composta da ex seguaci di Saddam Hussein e islamici radicali. Mosul, terza città del paese, considerata da sempre multietnica e multireligiosa, ha registrato un crescendo di episodi d’intolleranza nei confronti dei cristiani (che sono oltre 50 mila). Alcuni gruppi di studenti islamici emettono editti in stile talebano, intimando alle ragazze cristiane di portare il velo: molte famiglie hanno trasferito le loro figlie a Baghdad. È questa la lotta al modello iracheno nato dalla guerra di liberazione, un modello unico e rivoluzionario.

L’Iraq ha la prima Costituzione antifondamentalista e antiterrorista del mondo arabo. Basta leggere il settimo articolo per comprenderlo: “Ogni comportamento che appoggi, aiuti, prepari, glorifichi, solleciti o giustifichi il razzismo, il terrorismo, il takfir, la pulizia etnica e la ricostruzione del partito Baath, sono proibiti e non potranno far parte del pluralismo politico”. Dal 1973 l’Arabia Saudita attraverso l’Oci (organizzazione dei 54 paesi musulmani) ha invece promosso un “modello di Costituzione islamica” che si è imposta in Egitto nel 1980, quando la sharia diventa “la fondamentale fonte della legislazione”, in Pakistan nel 1984, in Sudan nel 1985, poi in Yemen e altrove. La base di dottrina politica di queste Costituzioni è esplicitata nell’articolo 10 della Dichiarazione islamica dei Diritti dell’Uomo: “L’islam è una religione intrinsecamente connaturata all’essere umano. È proibito esercitare qualsiasi forma di violenza sull’uomo o di sfruttare la sua povertà o ignoranza al fine di convertirlo a un’altra religione o all’ateismo”. Forme di jiza sono applicate a diverso grado in tutto il mondo islamico.

In teoria la Costituzione iraniana garantisce diritti uguali a musulmani, cristiani, ebrei e zoroastriani (le altre fedi sono rigidamente proibite) ma nei fatti li discrimina. Infatti non possono votare per i deputati del Parlamento, ma soltanto per loro deputati “a latere”: uno per gli zoroastriani, gli ebrei, gli assiri e i cristiani caldei e due per i cristiani armeni. È una norma che impedisce loro di incidere sulla formazione delle leggi e dei governi e crea un Parlamento-ghetto, accanto al Parlamento della polis musulmana. Ma la vera dhimma, la subordinazione coranica dei non musulmani, è imposta per via legislativa. Oltre alla censura cui sono sottoposti i libri di religione, che devono avere il “nulla osta” del ministero della Cultura, sono sbarrate ai non musulmani tutte le professioni che riguardano, anche in senso lato, l’assetto politico della polis musulmana (insegnante universitario, magistrato, dirigente dell’amministrazione pubblica, ufficiale di carriera). I nuovi dhimmi che aspirano a quei ruoli, infatti, sono tenuti a sostenere un esame di teologia islamica talmente rigoroso che nessuno lo supera.

Nell’Afghanistan dei talebani, tutti i non musulmani dovevano farsi riconoscere, mettendo uno straccio giallo alle abitazioni. Se in Iran o Afghanistan, come in Sudan, per l’apostasia c’è la morte, in Tunisia un missionario sorpreso a far opera di proselitismo viene immediatamente espulso. In Marocco, l’unico paese islamico in cui ci sono stati deputati ebrei eletti in liste non riservate a minoranze, la legge penale non vieta di convertirsi dall’Islam a un’altra religione, ma per chi cerca di “persuadere” i fedeli a cambiar credo sono previste pene dai tre ai sei mesi di carcere e multe dai 10 ai 50 dollari. Mentre gli apostati possono essere messi sotto processo in base al Corano, che è pure fonte di legge. E in Egitto, dove ci sono cristiani ministri e il cristiano Boutros Boutros-Ghali è diventato in passato segretario generale dell’Onu, proselitismo e apostasia, pur non vietati formalmente dalla legge, sono stati puniti col carcere sulla base degli articoli del codice che vietano le “offese alla religione”.

In Arabia Saudita restano interdetti ai non musulmani non solo la cittadinanza e l’ingresso alle città Sante di La Mecca e Medina ma anche i riti pubblici della loro fede. È consentito il culto privato e sembra non essere più applicato il divieto di ingresso agli ebrei. È prevista anche la pena di morte per chi fa proselitismo non islamico, anche se di recente due filippini se la sono cavata con due mesi di carcere. In Qatar, le prime chiese sono state costruite a partire dal 1999. Più grave ancora è la situazione in Pakistan, dove in teoria il proselitismo è permesso, ma dove il minimo gesto considerato “offesa all’Islam” o “bestemmia” può comportare il rischio di condanna a morte. Secondo questa legge è un reato affermare che “Gesù Cristo è figlio di Dio”, perché questo costituisce il peggiore peccato per l’islam fondamentalista: il politeismo (shirk), imperdonabile da Allah. Sulla base di questa legge, tribunali pachistani hanno emesso alcune condanne a morte, come il 2 maggio 1998 contro il cattolico Ayub Masih, il cui reato era di avere osato criticare la fatwa con cui Khomeini aveva incitato a uccidere Salman Rushdie. In quegli anni la persecuzione dei cristiani a opera delle stesse autorità pachistane era già così acuta che, pochi giorni dopo, il 7 maggio 1998, il vescovo di Faisalabad, John Joseph, 62 anni, si sparò in bocca davanti al tribunale che aveva condannato a morte Ayub Masih, per richiamare l’attenzione del mondo. La costituzione irachena invece afferma: “L’Iraq è uno Stato formato da differenti gruppi etnici, religiosi e scuole di religione. L’Iraq è parte del mondo musulmano e la sua popolazione araba è parte della umma araba”.
L’ayatollah Ali al Sistani ha dimostrato di essere molto lontano dall’intimidazione costituzionale vigente nella umma islamica dicendo, a proposito del ruolo e del peso dell’islam nella Costituzione, che “non ci devono essere turbanti nel nuovo governo iracheno”. Così al Qaeda, durante il referendum costituzionale, distribuì volantini che recitavano: “La nostra Costituzione è il Corano e non c’è alcun sostituto… Chi ci difenderà dalla furia di Allah, se scegliamo una Costituzione eretica invece della legge di Allah? O musulmani… boicottate le elezioni. State attenti, statene lontani! O musulmani… Sappiate che i centri delle elezioni eretiche sono un legittimo obiettivo per le operazioni dei combattenti del Jihad. Prendete le distanze per la vostra stessa salute”. In Iraq per fortuna non è andata così e non abbiamo assistito all’imporsi di una caratterizzazione teocratica nelle scelte dell’ala sciita che, anzi, si è ben guardata dal fare un fuoco di sbarramento contro tutti gli elementi costituzionali che definiscono uno Stato laico. Questo deriva dall’appartenenza di al Sistani alla scuola “akhbari” dello sciismo, quietista e a sovranità popolare, teorizzatrice di una separazione tra potere politico e leadership spirituale (marjia), corrente dunque contrapposta a quella “usciuli” cui si rifà la teocrazia khomeinista. E che a Mosul i terroristi vorrebbero imporre alla comunità cristiana.

Il Velino

lunedì 19 marzo 2007

Quarto anniversario della guerra in Iraq

Il quarto anniversario della guerra in Iraq (che ricorre oggi negli Usa e domani in Iraq) è stato ricordato in tutto il mondo con centinaia di manifestazioni pacifiste. Il corteo di Toronto, organizzato dal Canadian Peace Alliance, si è snodato da Yonge Street fino a Nathan Phill Square, dove i manifestanti hanno formato il simbolo della pace tenendosi per mano. I pacifisti chiedono il ritiro delle truppe canadesi dall'Afghanistan e dall'Iraq e che il Governo federale cessi di sostenere la politica belligerante di George W. Bush. Dopo il corteo, i manifestanti hanno scritto messaggi di pace col gesso sul muro del palazzo di giustizia, che sorge vicino al consolato americano.
Altre manifestazioni si sono svolte a Montréal, Ottawa, Halifax, Winnipeg ed Hamilton. Ad Halifax l'ex marine Dean Walcott, che ha prestato servizio in Iraq fra le fila dell'esercito americano, ha parlato ai manifestanti. «Siamo qui per condannare i capi di stato che mandano i loro soldati in missioni fallimentari e ridicole per combattere queste guerre coloniali», ha detto il militare venticinquenne che dopo aver disertato sta cercando di ottenere lo stato di rifugiato politico in Canada. Ad Ottawa circa 200 manifestanti hanno sfilato inneggiando slogans pacifisti che accusavano il Primo Ministro di genocidio. A Winnipeg, invece, i pacifisti portavano cartelli con la faccia di Harper e di Bush. Sono più di 2000 le truppe canadesi in Afghanistan e la loro permanenza è prevista fino al 2009. Dall'inizio del conflitto hanno perso la vita 45 soldati e un diplomatico. L'ultimo soldato morto è il caporale Kevin Megeney, ucciso il 9 marzo da un colpo di arma da fuoco nella base Nato di Kandahar. Sono 3.200, invece, i militari americani uccisi dall'inizio del conflitto e 59mila quelli iracheni.
Numerose manifestazioni si sono svolte anche in città americane, comprese Los Angeles, Denver e Chicago, ma la protesta più massiccia è stata a Washington dove i movimenti anti-guerra si sono radunati per ricordare un doppio evento: l'anniversario della guerra in Iraq e il quarantesimo della storica marcia pacifista sul Pentagono del 1967 contro la Guerra del Vietnam, che portò all'arresto di 600 dei 50 mila manifestanti. Ieri i pacifisti si sono radunati davanti al Monumento di Lincoln per marciare poi verso il Pentagono. Una contro dimostrazione è stata organizzata da gruppi favorevoli al conflitto in Iraq che esibivano cartelli con scritto: «Chi si oppone alla guerra aiuta Al Qaeda» oppure «Combattete la Jihad e non i nostri soldati». La marcia dei pacifisti era stata preceduta sabato da un raduno di preghiera per la pace nella Cattedrale Nazionale di Washington. I manifestanti si erano poi recati davanti alla Casa Bianca per una dimostrazione di protesta non autorizzata che ha portato all'arresto di oltre 200 persone (tutte ammanettate, caricate su alcuni autobus e multate di 100 dollari). Il presidente Bush, nel suo discorso radio del sabato, ha difeso la Guerra in Iraq ammonendo i democratici del Congresso a non cercare di imporre «scadenze artificiose» al rimpatrio delle truppe Usa. Il Congresso sta esaminando la legge che stanzia fondi per oltre 95 miliardi di dollari per combattere le guerre in Iraq e in Afghanistan. Bush ha inoltre ammonito il Congresso di non «imporre condizioni arbitrarie e restrittive» all'uso di tali fondi e ha minacciato di ricorrere al veto se i democratici del Congresso tenteranno di imporre scadenze che avrebbero solo «disastrose conseguenze».
Altre manifestazioni si sono svolte nelle maggiori capitali del mondo. Ad Atene, per esempio, hanno sfilato più di 1000 persone, mentre ad Istanbul il corteo dei pacifisti contava oltre 3000 manifestanti. Tutti a ribadire il loro no alla guerra.

Corriere Canadese

domenica 18 marzo 2007

Il Medioevo direttamente a casa vostra

Sua Eccellenza Reverendissima Card. Ennio Antonelli ha vergato di suo pugno un testo intitolato Famiglia e Società. Le preziose riflessioni morali e politiche verranno consegnate, su iniziativa di Ruini, a tutte le famiglie romane per «riflettere sull'importanza sociale della famiglia.» Postini d'eccezione saranno i sacerdoti della diocesi impegnati nelle benedizioni pasquali casa per casa. L'inattaccabile pensiero del Card. Antonelli «pur essendo in armonia con la fede cristiana, si sviluppa sulla base dell’esperienza e della ragione e può essere condiviso anche da chi non è credente.» Ma certo, Cardinale, le sue parole saranno condivise soprattutto dai non credenti, tanto è formidabile la potenza del suo logos. Un tempo, dice il Cardinale, la famiglia era un'oasi di felicità e benessere.

«In molte tradizioni culturali la famiglia si presenta soprattutto come istituzione finalizzata al bene generale della società e in misura minore viene considerata come comunità di amore tra le persone. Anche nel nostro paese era questa la situazione in un passato ormai piuttosto lontano».

Che tempi, Cardinale. La nostalgia si mischia al rimpianto. Ma oggi? Che succede oggi? L'Arcadia è sempre lì a portata di mano? Apparentemente no. Scrive infatti Antonelli che:

«Oggi il contesto culturale è radicalmente cambiato. E’ molto diffusa la mentalità individualista; si privilegiano i diritti e l’indipendenza dell’individuo. Conta quello che si sente, quello che è spontaneo e immediatamente gratificante, come se i desideri, gli affetti e le emozioni non dovessero essere governati dalla ragione e orientati verso ciò che è veramente bene. La famiglia viene privatizzata, ridotta a un semplice rapporto affettivo, senza rilevanza sociale, come se si trattasse soltanto di una forma di amicizia. Anzi, la tendenza a inseguire e consumare emozioni e sensazioni, a usare l’altra persona soprattutto in funzione della propria soddisfazione, rende fragile il rapporto di coppia; impedisce il consolidarsi della fiducia reciproca e di un forte legame di appartenenza.»

Detto questo, preparatevi ad una escalation di orrore. Il Cardinale parla chiaro:

«la precarietà della coppia incide negativamente sulla nascita e sull’educazione dei figli, compromettendo il bene stesso della società. Non è difficile rendersi conto che senza nascite un popolo muore e senza educazione un popolo va in decadenza.»

Insomma, volete minare la famiglia con leggi contro natura? Fatelo pure, ma sarete responsabili della decadenza dell'Italia.

«In Italia abbiamo la natalità più bassa che ci sia al mondo, in media un solo figlio per donna (o poco più), mentre ne occorrerebbero due (o poco più) per il ricambio generazionale. Senza un’inversione di tendenza, si prevede che in breve tempo la popolazione italiana sarà dimezzata. Qualcuno potrebbe dire: “Meglio così! Si starà più larghi e si starà meglio!”. Ma questo è completamente falso. Il calo demografico porterà con sé una grave crisi economica, sociale e culturale. Diminuirà la produzione di beni e servizi; diventeranno insostenibili il pagamento delle pensioni e l’assistenza agli anziani, che viceversa, a motivo dell’invecchiamento complessivo della popolazione, avranno bisogno di maggiori risorse umane ed economiche; non si sarà più in grado di assicurare la scuola e il trattamento sanitario gratuiti; si assottiglierà la trasmissione del nostro patrimonio culturale, proprio quando si diffonderanno altre culture portate dagli immigrati. Non per niente Giovanni Paolo II metteva in guardia il popolo italiano dal rischio di un “suicidio demografico”. L’instabilità del rapporto di coppia reca grave danno anche all’educazione dei figli, compromettendo spesso il loro equilibrio psicologico e predisponendoli a comportamenti disordinati e devianti. A riguardo le indagini statistiche rilevano, con percentuali impressionanti, fenomeni di disagio sociale, tossicodipendenza, micro e macrocriminalità, lasciando intuire facilmente quali siano i costi per la società nel suo insieme: basti ricordare che qualche tempo fa negli Stati Uniti l’85% dei giovani in carcere risultava cresciuto senza la vicinanza della figura paterna.»

Insomma, cazzi vostri. Preparatevi ad un nuovo Medioevo. E non sarà colpa loro. No, sarà colpa vostra.

sabato 17 marzo 2007

Quel cancello alle nostre spalle

Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l'orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo. Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada. Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto. Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimé, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il fiume dell'orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l'una sull'altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire. Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa tempo a tornare.


Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari


giovedì 15 marzo 2007

Zapatero, ancora lui

Il parlamento spagnolo approva una legge che sancisce l'uguaglianza effettiva tra uomini e donne. Tra le conseguenze più rilevanti del provvedimento vi è obbligo da parte dei partiti di presentare liste elettorali in cui almeno il quaranta percento dei candidati sia composto da donne. Scrive El Pais:

"La paridad en las listas electorales será una de las primeras consecuencias que se harán notar tras la entrada en vigor de la ley, dado que los partidos políticos deberán confeccionar candidaturas para las próximas elecciones autonómicas y municipales en las que las mujeres, al menos, deberán estar representadas en un 40% de las listas, en tramos de cinco puestos, salvo en las localidades de menos de 5.000 habitantes".

Qui potete leggere tutto l'articolo.

Quando avete finito tirate la catena (ovvero la strabordante simpatia di Sergio De Gregorio)

Scopro che Sergio De Gregorio ha un blog. Scopro anche che un mesetto fa l'onorevolissimo aveva partecipato ad una puntata di "...e io pago", aristofanesca ed insuperabile satira della vita politica italiota presentata dal nobel Pippo Franco. Le battute di spirito del senatore devono aver infiammato la colta e raffinata platea del Bavaglino. De Gregorio infatti scrive di se stesso, parlando in terza persona:

“Performance simpatica e schietta del Senatore Sergio De Gregorio presidente della Commissione Difesa del Senato e leader del movimento politico Italiani nel Mondo alla puntata di sabato 10 febbraio dello spettacolo “… e io pago” in onda su Canale 5. Sergio De Gregorio ha sfidato simpaticamente Alessandra Mussolini rispondendo alle domande di Pippo Franco. Il leader di Italiani nel Mondo ha anche ballato con Aida Yespica e recitato in maniera veramente divertente alcuni versi di Trilussa. Tra le risposte più simpatiche quella sul paracadute. “Lo vorrei dare a Prodi - ha detto De Gregorio - ma credo che i suoi alleati glielo rubino lasciandolo cadere”.

I commenti al post (certamente non scritti dallo staff di De Gregorio) sono gustosi quanto il post stesso.

“Bella serata Senatore vero? La Aida è stupefacente vero? Lei è stato veramente simpatico”.
Simpaticissimo il suo intervento Senatore. Ci siamo divertiti moltissimo vedendo la sua puntigliosa recitazione e il suo sempre pronto spirito. Spero di vederla ancora in televisone”.
“Ho visto solo ora il suo intervento registrato da un mio amico. Mi sono fatto copiare il VHS e trovo che sia stato veramente molto simpatico. Se tutti i politici fossero’ cosi’ ironici e simpatici la politica sarebbe sicuramente piu’ vicina ai cittadini”.


Professione: presidente della Regione Sicilia

Credetemi, un video eccezionale. Il 1991, la staffetta tra Samarcanda di Michele Santoro ed il Maurizio Costanzo Show, l’intervento di un giovane ed occhialuto Totò Cuffaro. Ci sono almeno tre temi che si scontrano nell’arco di una decina di secondi: Maurizio Costanzo, e la sua espressione accigliata; il grande Giovanni Falcone, ed il suo sorriso amaro; Totò Cuffaro, con la faccia da Totò Cuffaro, vestito da Totò Cuffaro. “Il giornalismo mafioso che è stato fatto stasera fa più male alla Sicilia di dieci anni di delitti”. Questo dice Totò Cuffaro. Ma non dice solo questo. Dice anche molte altre cose. Per quanto sia amaro farlo notare, oggi Costanzo ha smesso di fare il giornalista, Falcone è stato ammazzato, Cuffaro fa il presidente della regione di Sicilia. Non so a voi, ma a me questa cosa fa una certa impressione. Buona visione.


mercoledì 14 marzo 2007

Ratzinger e Lutero: quattrocentosettantasette anni

«Non si deve chiedere alle lettere della lingua latina come si ha da parlare in tedesco, come fanno questi asini, ma si deve domandarlo alla madre in casa, ai ragazzi nella strada, al popolano al mercato, e si deve guardare la loro bocca per sapere come parlano e quindi tradurre in modo conforme»
Martin Lutero, 1530

I preti devono «comprendere e celebrare la messa in latino, utilizzare i testi latini ed eseguire il canto gregoriano». I fedeli devono essere «educati a conoscere le più comuni preghiere in latino come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia». Il latino deve «esprimere meglio l'unità e l'universalità della Chiesa».
«Eccettuate le letture, l'omelia e la preghiera dei fedeli è bene che tali celebrazioni siano in lingua latina, così pure siano recitare in latino le preghiere più note della tradizione della Chiesa ed eventualmente eseguiti brani in canto gregoriano».
Joseph Ratzinger, 2007